Quando sono entrati nel vecchio Molin di Bucchio, Claudio Bucchi e sua moglie Carla non ci potevano credere. La grande cucina, rimasta così da almeno un paio di secoli con il grande camino sulla destra, la “fratina” di legno nel mezzo e il lavandino in pietra nell’angolo, era tappezzata da calendari da camionista. Il soffitto aveva le prime due travi dove erano appesi i vari mesi dell’anno in versione osè e alle travi successive file di pomodori secchi. La stanza era ingombra di riviste, oggetti. Pietro Bucchi, lo zio di Claudio, era morto nel 2000 senza figli e aveva lasciato il mulino al bisnipote. Era stato lui l’ultimo mugnaio di Molin di Bucchio, il primo mulino che si trova sul corso dell’Arno, sulla strada tra Stia e Londa a cavallo tra la provincia di Arezzo e di Firenze, in pieno Casentino. Per secoli, il mulino è passato di generazione in generazione nella famiglia Bucchi – se ne hanno tracce fin dal 1200 come proprietà dei Conti Guidi – tanto che non si sa più se è il luogo che ha dato il nome alla famiglia o viceversa. Pietro ha continuato a macinare il grano e soprattutto le castagne fino agli anni ’60 e poi ha portato avanti l’altra attività che veniva passata di padre in figlio fino dal 1800: l’allevamento di trote, uno dei più grandi d’Italia, che serviva il centro ittiogenico di Roma e quasi tutto il Centro Italia. Di quell’epoca rimane la foto di Pietro con il tipico cappotto di panno casentino, arancione con il pellicciotto sul collo, e uno sguardo sornione. “Era considerato un burbero – racconta il bisnipote – ma se lo si conosceva un po’ meglio era una persona generosa. Lo chiamavano “il filosofo” e di sicuro aveva moltissimi amici, tanto che alcuni hanno iniziato a tornare al Molino per raccontare di lui. Noi lo abbiamo riscoperto attraverso di loro. Naturalmente, era anche un ottimo bevitore. Il suo motto era: non ti mettere in cammino se la bocca non sa di vino”.

Negli anni ’70, il fratello di Pietro muore improvvisamente e, per questioni legali, lui è costretto ad abbandonare le amate trote. Le vede morire davanti ai suoi occhi nelle grandi vasche che da un secolo almeno stavano nel retro della casa. Da allora si isola sempre di più, e smette di curare il Molino. Per questo Claudio Bucchi, una volta entratone in possesso, insieme alla moglie e alla figlia ha dovuto affrontare un notevole lavoro di ristrutturazione e di restauro. Ha riportato tutto, per quanto possibile, alla sua forma originale e ha iniziato ad aprire la porta a chi passava a visitare; dopo un po’ il Molin di Bucchio è entrato nella rete dell’Eco Museo del Casentino, riconosciuto come progetto di rilevanza regionale della Regione Toscana.

“Io qui ci venivo da bambino con mia madre – racconta Claudio – perché ci abitavano solo uomini: Pietro, il babbo di Pietro e il fratello. Mia madre veniva ogni tanto dare una mano a fare le cose da donne. Per me era ogni volta una festa perché era sempre pieno di gente. E poi andavo a vedere le trote”.

A ridosso del mulino scorre l’Arno, a poche centinaia di metri dalla sorgente, un fiume piccolo da cui partiva all’epoca un canale per portare l’acqua al mulino. Carla, la moglie di Claudio, ci mostra il funzionamento. “Queste sono le trecine – dice indicando una sorta di grossi cucchiai di legno – erano posizionate intorno al palo come i petali di una di margherita e muovevano il palo che a sua volta faceva girare la macina grazie ad un fiotto dell’acqua che veniva fatto arrivare dall’alto per sfruttare la forza di gravità”.

Da Molin di Bucchio ci passavano tutti, ci sono persone che ancora oggi vengono a ricercare i nomi di famiglia nel registro della macinatura. La sala dove si aspettava è piena di scritte, graffiti o incisioni. “A volte si aspettava tanto”, spiega Carla. “Non è che ci fosse molto da fare per scacciare la noia”.

E poi c’era la raccolta delle castagne nei boschi adiacenti, sempre dei Bucchi, c’erano i lavoranti che si fermavano a dormire, c’era l’essiccazione delle castagne e poi la sbucciatura che veniva fatta tramite delle strane scarpe con spunzoni piramidali di legno. Ci si camminava sopra e le castagne si sbucciavano.

Ma Molin di Bucchio era anche il luogo di sosta per gli smacchiatori, ovvero quelli che tagliavano il sottobosco della montagna e portavano il legno a dorso di mulo e prima di arrivare alla strada rotabile facevano tappa al mulino. C’era il telefono pubblico al mulino, una cabina di legno che stava in cucina. Qui si riceveva la posta e poi nel weekend dalle frazioni vicine le persone venivano a ballare nella grande cucina, che nell’800 non è che ci fossero tanti altri locali.

“Quando siamo entrati – racconta la moglie di Claudio – abbiamo ricostruito attraverso i documenti almeno 150 anni di storia locale. Per un periodo ad esempio qui c’è stata una scuola. Abbiamo trovato i registri, i quaderni degli alunni. Uno di questi l’ho fotocopiato e dato ad una signora che abita poco più a nord. Era il quaderno di sua madre”.

Molin di Bucchio, però, è legato anche a due episodi tragici della Resistenza e dell’occupazione nazista. In Casentino passava la linea gotica e il mulino era un luogo strategico per il rifornimento sia per i partigiani che per i tedeschi. Fu a pochi metri da lì che venne torturato e ucciso Pio Borri, studente di legge che aveva formato un primo nucleo di resistenza sul monte Falterona e che fu colpito a morte l’11 novembre 1943. Un monumento all’entrata del mulino lo ricorda: primo partigiano ucciso in Toscana.

L’anno dopo, a seguito di uno scontro tra partigiani che erano venuti a prendere del grano e i tedeschi che erano arrivati all’improvviso, rimasero uccisi anche due soldati nazisti. Il giorno dopo, un plotone di 600 soldati delle SS si riversarono sul vicino paese di Vallucciole e lo misero a ferro e fuoco uccidendo 108 civili tra cui donne e bambini. Fu il primo eccidio di queste dimensioni in Toscana.

L’ultima generazione della famiglia Bucchi onora ancora questa memoria con grande passione. “Scavare nel passato di questo posto è stato ogni giorno una scoperta – racconta Carla – ma la parte più bella è stata trovare tutte le lettere e le fotografie dal 1919 fino al 1960. L’ultima, quella di un partigiano yugolsavo che scrive a Francesco, lo zio di Pietro, per ringraziarlo di averlo ospitato durante la guerra a Molin di Bucchio. Ci sono racconti che arrivano dall’Albania, dall’Africa, dalla Grecia. E c’è anche la lettera di un tipo di queste parti che scrive “spero di tornare e di riportare la carcassa a casa…ma se trovo una donna resto qui!’”. La famiglia Bucchi sta cercando il canale per valorizzare questo patrimonio storico. Ma Carla confessa: “Niente mi potrà appagare di più di averle toccate con mano… lettere, buste e francobolli”.

 

Cecilia Ferrara

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