Tutti lo conoscono come Don Gigi, prete toscano dalla chiacchiera vivace e colorita. E Don Gigi trova tempo per tutti: ogni weekend ha decine di ragazzi, di attività, corsi e convegni nei locali della pieve e della foresteria da poco ristrutturata. La prima domanda ti sorge spontanea è: come fa questo prete istrionico e un po’ brusco ad attrarre così tante persone laiche e religiose in cerca di qualcosa, principalmente di un cambiamento? Ed eccolo lì che dal nulla lui ti fa quella domanda, proprio quella lì, che ti mette in crisi mentre ti sentivi così sicuro.

Da 25 anni Don Luigi Verdi è il responsabile della fraternità di Romena, nata attorno a una meravigliosa pieve romanica del 1152 tra Pratovecchio e Stia, poco sotto il Castello di Romena dei Conti Guidi, gli stessi che ospitarono da Dante Alighieri nel 1300. “La pieve fu costruita in tempo di fame”, racconta don Gigi, “infatti c’è un capitello con scritto Tempore Famis. In quel periodo, per dare da mangiare ai poveri, i Conti del castello di Poppi fecero costruire questa pieve. Quello che ho sempre amato di questo luogo è proprio l’idea che, in un tempo di crisi, possa nascere la bellezza. Amo questa pieve perché dentro c’è tutta la vita: sui capitelli ci sono gli alberi, gli uomini, gli angeli e il diavolo. I buoni, ma anche i cattivi”.

“La comunità”, continua Don Gigi, “nasce nel 1991, dopo un mio momento di crisi come prete. Ero a Pratovecchio, un paese a un chilometro da qui, e chiesi al vescovo un anno per andare via. Ho preso lo zaino e sono andato in Bolivia tra i campesinos, poi tre mesi in Algeria, nel deserto, sulla via di Charles de Foucauld. Alla fine dell’anno, ho chiesto al vescovo di poter tornare a questa pieve per aiutare le persone in difficoltà. I dubbi veri, però, li ho avuti un mese prima di venire qui, quando mi sono chiesto: come faccio a fare il ganzo e ad aiutare gli altri, se non ho capito il motivo vero della mia crisi?’”.

Il motivo della sua crisi, dice ancora don Gigi, era la sua timidezza e le sue “mani tagliate”. Quando era incinta, sua madre aveva assunto il Talidomide, un farmaco somministrato negli anni ’50 e ’60 per combattere la nausea, successivamente rivelatosi causa di malformazioni gravissime: con una lieve malformazione a un piede e alle mani, a Don Gigi è andata relativamente bene.
“A un certo punto mi sono ricordato di un salmo che dice: la pietra scartata è diventata la pietra angolare. Allora ho deciso che le due cose che ritenevo la parte peggiore di me, gli occhi paurosi per la timidezza e le mani, dovevano diventare la parte migliore. Così, mi sono messo a guardare la gente negli occhi, tremando e arrossendo, fino a che la timidezza non è scomparsa. Con le mani, invece, ho iniziato a dipingere, a lavorare il metallo e il legno facendomi insegnare da maestri bravissimi”.

L’ispirazione che ancora oggi lo anima, dice, è quella del figliol prodigo. “Quando una persona si perde, prima rientra in se stessa, poi va nel mondo, e infine torna a casa. Per questo mi sono inventato i corsi di supporto psicologico del fine settimana: perché, secondo me, ognuno ha due o tre ferite. Se vive nel mondo come tutti non può non averle. Il problema è che spesso inventiamo altre dieci ferite stupide per nascondere quelle vere. Quindi, lo scopo del primo corso è andare al nocciolo del problema e spingere le persone ad affrontare i propri dolori. Il secondo corso ha come scopo ri-innamorarsi di Dio. Il terzo fornire gli strumenti per tornare a casa e vivere meglio”.

Oggi alla fraternità di Romena vengono da tutta Italia. Prima erano pochi amici poi, con il passaparola, sono iniziate ad arrivare persone di tutte le età e di tutte le estrazioni. Non solo. Da dieci anni Don Gigi gira l’Italia con le sue “veglie”. Secondo i suoi calcoli, incontra 15.000 persone l’anno. Ma qual è la formula del suo successo? Poche frasi semplici, idee molto chiare. “Non ho mai sopportato né il Dio giudicante, né i posti dove a Dio si chiedono miracoli: io desideravo un posto dove poggiare la testa sulle spalle di Dio e dove, magari, Dio poggia la testa sulle nostre spalle. Una persona ha bisogno di tre cose nella vita: un pezzo di pane, di un po’ di affetto, sentirsi a casa da qualche parte. Una fraternità è un porto di mare. Uno piglia quello che gli serve, e magari va via. Cerchiamo di capirci e di incontrarci, e ognuno è libero di andare e di tornare”.

Di fronte alla pieve c’è una foresteria molto bella composta di edifici bassi, una segreteria, un bar, un auditorium e una piazza. “Dovevamo preservare la bellezza della pieve, abbiamo impiegato la massima cura per avere un ambiente armonico. In un mondo in crisi come quello di oggi c’è assolutamente bisogno di due cose: bellezza e tenerezza. Qui puoi trovare la bellezza dei luoghi e la tenerezza dell’accoglienza”.

Cecilia Ferrara